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Antonio Carracci, Due allegorie cristiane

Tre virtù teologali

Antonio Carracci (Venezia ? - Roma 1618)
Tre virtù teologali
Olio su tela, cm. 188x256
Provenienza: Museo e Real Bosco di Capodimonte, Inv. n. S84063
deposito temporaneo 30/06/1926

Trasformazioni degli dei antichi da Raffaello ai Carracci

All'inizio del ‘500 il potentissimo banchiere senese Agostino Chigi decideva di far costruire tra il Tevere e via della Lungara una sontuosa villa suburbana. Il progetto fu predisposto dal suo concittadino Baldassarre Peruzzi, che fu responsabile anche degli affreschi esterni e di quelli sul soffitto nella Loggia che si affacciava sul giardino. Quest'ultimo verdeggiava di piante di ogni genere, anche esotiche, ed era arricchito da statue e fontane. Nel 1511, sulle impalcature della Loggia, Peruzzi venne sostituito dal pittore veneziano Sebastiano Luciani (in seguito detto del Piombo), un allievo di Giorgione che Agostino aveva conosciuto a Venezia, dove quell'anno aveva trascorso sei mesi concitatissimi per via di un colossale prestito accordato alla Serenissima, che stava vivendo uno dei periodi più bui della sua storia. Nei fatti quel prestito accompagnava la nuova alleanza tra lo Stato Veneto e il Papato, alla cui testa stava uno dei pontefici più energici e bellicosi della storia: Giulio II. Accanto a Peruzzi e Sebastiano, nel 1512, nella Loggia venne a lavorare pure il pittore prediletto dal papa, Raffaello Sanzio, che vi realizzò una Galatea in competizione con il Polifemo che il veneziano aveva appena realizzato nell'adiacente porzione di muro. Così la villa - che accoglieva gli ozii letterari del banchiere, assieme alla sua variopinta ‘corte' di musici e letterati (tra cui Pietro Aretino) - si avviava ad essere uno dei luoghi artisticamente più à la page dell'Urbe. La decorazione dell'edificio, tuttavia, subì una battuta d'arresto, fino a quando Agostino decise di sposare la donna che gli stava accanto dal 1511: la veneziana Francesca Ordeaschi, dalla quale ebbe quattro figli. Per celebrare l'evento chiese al pittore senese Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma di affrescare la stanza da letto con storie delle nozze di Alessandro Magno e Rossane e a Raffaello l'altra Loggia della villa, con scene ispirate all'Asino d'oro di Apuleio (un romanzo scritto nel 170-175 d.C.) in cui si narravano le vicende di Psiche, una donna tanto bella da suscitare l'invidia di Venere. Il Sanzio trasformò il soffitto di quell'ambiente chiuso in un meraviglioso pergolato vegetale di fiori, fogliame e frutta da cui apparivano le divinità riunite in Concilio - per ammettere tra loro la mortale - e poi il Convito nuziale di Amore e Psiche. Si trattò di uno degli ultimi lavori romani di Raffaello, che nella realizzazione delle figure si fece aiutare da Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, e negli elementi naturalistici da Giovanni da Udine, un allievo di Giorgione specializzato in simili descrizioni. Il risultato fu spettacolare: i cieli di Trastevere si aprirono su una delle più potenti rievocazioni dell'ideale classico mai immaginate fino a quel momento. Fu uno degli apici cinquecenteschi di un secolare processo culturale su cui all'inizio del ‘900 richiamò l'attenzione lo studioso tedesco Aby Warburg, che dedicò molte delle sue ricerche alla cosiddetta "rinascita del paganesimo antico" (Erneuerung der heidnischen Antike).

Il matrimonio tra Agostino e Francesca venne celebrato dal papa il 28 agosto 1519, ma non durò a lungo, perché l'anno successivo i due furono separati dalla morte. Agostino spirò quattro giorni dopo l'amico Raffaello, il 10 aprile 1520, e i suoi funerali vennero celebrati in forma degna di un sovrano in Santa Maria del Popolo, dove il Sanzio aveva progettato per lui una meravigliosa cappella funeraria in cui in seguito avrebbero lavorato anche Sebastiano del Piombo e, molto dopo, Gianlorenzo Bernini. La moglie gli sopravvisse pochi mesi; poi fu probabilmente avvelenata e pure lei venne sepolta nella medesima cappella.

Con la scomparsa di Raffaello e del Chigi si chiuse una stagione aurea del Rinascimento romano, ma l'anelito di bellezza e di armonia del banchiere si era cristallizato negli affreschi che aveva fatto realizzare nella villa. La preziosità di quest'ultima venne riconosciuta da quanti ne usufruirono nei tempi successivi: dal 1579 il cardinale Alessandro Farnese il giovane (nipote di papa Paolo III), poi suo nipote Odoardo Farnese, figlio del duca di Parma, e - dopo la morte di questi, nel 1626 - il cardinal Richelieu (dal 1633 al 1635) e, ancora, la regina Cristina di Svezia (1661-1689), che viveva di fronte, a Palazzo Corsini. L'eccezionale importanza degli affreschi nella Loggia di Psiche fu inoltre attestata dall'esteso restauro condotto dal pittore più in vista nella Roma della fine del XVII secolo, Carlo Maratta, ma pure - appunto - dalle due grandi tele che si presentano in questa piccola mostra ospitata nella sala Aldo Moro di Montecitorio.

In esse si operò una curiosa ritrascrizione iconografica e semantica: il gruppo raffaellesco con Venere, Cerere e Giunone venne infatti trasformato nelle Tre virtù cardinali (Fede, Speranza e Carità), mentre le Tre Grazie con Cupido andarono a qualificare una più generica Allegoria della Religione. Bastò inserire alcuni simboli e cartigli di inequivocabile significato cristiano, con l'aggiunta di qualche velo (senza peraltro castigarne troppo le nudità), ed ecco che le antiche dee della mitologia greca e romana servirono ad emblematizzare i valori del cattolicesimo riformato, mantenendo peraltro un richiamo alle classicissime forme incarnate da Raffaello.

Di per sé, questo tipo di operazioni non era raro: basti pensare a quante stampe con soggetti profani vennero utilizzate dagli artisti dell'epoca per composizioni religiose di segno antitetico, e viceversa. Ma qui la situazione è differente: perché a commissionare tale impresa duplicativa fu lo stesso proprietario della villa Farnesina. 

Come indicato da Stefano Pierguidi (2010) - e ribadito in questo catalogo da Gloria Antoni - le due tele furono infatti commissionate dal cardinale Odoardo Farnese e collocate nell'appartamento "nobile" al primo piano del palazzo di famiglia che affacciava sul Lungotevere, attuale sede dell'Ambasciata di Francia. Lì stavano di fronte alla Disputa sull'Immacolata Concezione del friulano Giovanni Antonio da Pordenone e a un'Allegoria della Giustizia di Giorgio Vasari, entrambe oggi conservate nel Museo e Real Bosco di Capodimonte. Si trattò, chiaramente, della volontà di evidenziare entro il contesto della collezione il richiamo alle ‘gemme' conservate in quell'ulteriore proprietà di famiglia, ma nello stesso tempo di esprimere clamorosamente la volontà di una risemantizzazione in chiave di ortodossia cattolica, peraltro ben comprensibile considerando la posizione politicamente sempre piuttosto oscillante del cardinale Odoardo nel contesto della Roma dell'epoca.

Secondo la brillante intuizione di Alessandro Zuccari (2019), il responsabile di questa reinterpretazione fu Antonio Carracci, l'ultimo esponente di una famiglia di artisti che Odoardo Farnese aveva sostenuto nel tempo in maniera sistematica, procurando loro commissioni importantissime, tra cui la celeberrima Galleria del palazzo, decorata a partire dal 1597. Antonio era il più giovane dei Carracci: figlio di Agostino e di una ‘cortigiana' veneziana, e quindi nipote di Annibale e secondo cugino di Ludovico. Come ricorda Vincenzo Sorrentino nella seguente scheda biografica, dopo la morte del padre egli ebbe commissioni di rilievo in città da parte di vari prelati vicini a Paolo V e l'incarico di eseguire le due tele dovrebbe cadere non molto prima della sua scomparsa, occorsa nel 1618. La sua paternità delle opere è attestata da svariati riscontri di carattere stilistico con la produzione certa. Tuttavia, essa venne presto dimenticata, come dimostrato dalle prime registrazioni inventariali, che le dichiarano eseguite da Annibale. Dopo la morte di suo padre Agostino (1602), Annibale dovette divenire ancor più un punto di riferimento ineludibile per la crescita e la carriera del giovanissimo Antonio, che peraltro a un certo punto si trovò nella condizione di dover assistere lo zio caduto in depressione: aveva infatti perso il piacere della pittura e suo compito era quello di farlo rimanere a lavorare in bottega per almeno "due ore ogni dì". Un anno dopo Annibale sarebbe morto e - essendosi ormai stabilizzatosi suo cugino Ludovico a Bologna - rimaneva solo lui a tenere viva la memoria dell'arte del padre e dello zio. Fu forse anche per questo che Odoardo lo convocò, affidandogli questa impresa duplicativa di uno dei modelli prediletti dei suoi celebri parenti.  

Enrico Maria Dal Pozzolo

Una breve vita per Antonio Carracci (1590 ca.-1618)

La vita di Antonio Carracci si può ricostruire sulla base di tre biografie seicentesche: quella di Giulio Mancini, rimasta a lungo manoscritta, fu composta tra il 1617 e il 1621, con l'artista ancora in vita; mentre quelle di Giovanni Baglione (1642) e di Carlo Cesare Malvasia (1678) furono pubblicate diversi anni dopo la morte del pittore.

La data di nascita di Antonio Carracci è ignota, purtuttavia diverse fonti convergono nel ritenerlo nato a Venezia dove Agostino, suo padre, si era unito a una sua "particolare amica", generando, quindi, un figlio illegittimo. Agostino Carracci (1557-1602) apparteneva a una famiglia di pittori di Bologna; insieme a suo fratello Annibale (1560-1609) e a loro cugino Ludovico (1555-1619) aveva già lavorato in città alla decorazione dei palazzi Fava e Magnani e, grazie all'interessamento del cardinale Odoardo Farnese, era giunto a Roma dove, a partire dal 1596, ottenne importanti commissioni insieme ad Annibale. Tra queste, va segnalata la decorazione del camerino e poi della galleria nel palazzo della famiglia del cardinale (1598-1600), l'apice delle loro produzioni, a cui collaborarono anche i giovani Domenico Zampieri, detto il Domenichino (1581-1641), e Sisto Badalocchio (1585-1647 ca.) e che sarà fondamentale per le successive sperimentazioni sullo sfondato prospettico in età barocca.

Quando, nel 1602, morì suo padre Agostino, Antonio Carracci era, quindi, solo un adolescente e fu affidato alle cure del più giovane zio Annibale, ancora impiegato presso i Farnese a Roma. Malvasia fa riferimento ad alcune opere giovanili di Antonio - ribattezzato "Tognino" - realizzate a Bologna, ma di queste non c'è più traccia. Viceversa, Baglione colloca i primi passi del più giovane dei Carracci direttamente nell'Urbe: "d'età non molto grande, andava disegnando le belle opere di Roma, e nelle accademie, che in questa città si sogliono fare, dal vivo ritraendo, molto buon gusto ne acquistò". Parrebbe, quindi, verosimile che solo nei primi anni Dieci del Seicento Antonio fu coinvolto nelle commissioni dei suoi più maturi compagni di bottega.

Precedente a questa fase, ma comunque di un certo interesse è il documento sottoscritto nel luglio del 1608 da Antonio con i colleghi Giovanni Antonio Solari (1581-1666) e Sisto Badalocchio, una scrittura privata che impegnava i giovani a far trattenere in bottega "dui ore ogni dì" il maestro Annibale, affetto da una forma di depressione che lo avrebbe portato a una morte prematura l'anno successivo.

Piuttosto sciupati sono gli affreschi realizzati tra il 1609 e il 1611 dal più maturo Guido Reni (1575-1642) nella chiesa romana di San Sebastiano fuori le mura a cui partecipò anche il giovane Carracci e grazie ai quali si attirò la benevolenza di Michelangelo Tonti, cardinale romagnolo vicino a Scipione Borghese, cardinal nepote di papa Paolo V e titolare, a sua volta, della chiesa di San Sebastiano. A stretto giro, Tonti si fece affrescare alcune cappelle nella chiesa di San Bartolomeo, sull'Isola Tiberina, incarichi da scalare tra il 1610 e il 1614 e che rappresentano i primi lavori autonomi di Antonio, perché successivi alla dipartita dello zio Annibale. Qui lo stile gentile e delicato del pittore si carica di sperimentazioni in senso naturalistico, accogliendo, forse, l'invito dello zio Annibale che, secondo Malvasia, era solito ripetergli "carica, Tognino, carica", spronandolo all'impiego dell'intera gamma di possibilità offerte dalla natura e non di una selezione dei suoi soggetti e aspetti più idealizzanti.

Nel 1614, Tognino risultava regolarmente iscritto all'Accademia di San Luca, l'istituzione che riuniva gli artisti operanti a Roma, ne curava gli interessi e ne difendeva le prerogative. Nel 1615, anche Antonio potrebbe essere stato coinvolto nella realizzazione di diversi ovali con storie di Alessandro Magno per la villa sull'Esquilino del cardinale Alessandro Peretti Montalto, nipote di papa Sisto V, ma sussistono alcune incertezze attributive sull'Incontro di Alessandro Magno e re Poro di collezione privata, già avvicinata al suo nome. Viceversa, non poté partecipare alla decorazione ad affresco di palazzo Mattei, come invece riporta Mancini, perché troppo giovane.

Alla metà del secondo decennio del Seicento, si collocano anche alcune pale realizzate per l'"estero": quella per Giovan Battista Cenami a Lucca (la Madonna col Bambino, le sante Marta e Chiara e san Giovannino, oggi alla Gemäldegalerie di Berlino) e le due nella chiesa di san Vigilio a Siena (la Madonna di Loreto e l'Assunzione della Vergine), già messe in relazione con un soggiorno estremo del pittore in Toscana "malamente consigliato a mutar aria".

A ulteriore dimostrazione del successo che andava riscuotendo nella cerchia dei cardinali più vicini a papa Paolo V, vi è poi la commissione di un fregio dipinto nella sala del Diluvio nel palazzo pontificio del Quirinale, ricevuta nel 1616; mentre non è nota la data d'ingresso in collezione Borghese della Deposizione di Cristo, tuttora nella villa pinciana, ma dall'attribuzione ancora non unanime. È a questa altezza cronologica che potrebbe collocarsi l'esecuzione delle copie dagli affreschi di Raffaello in villa Farnesina su cui si basa la presente occasione espositiva (si veda il saggio di Gloria Antoni).

Nel febbraio del 1615, il "Carraccino" aveva sposato la cipriota Rosa o Rosanna Leoni, dalla quale non ebbe figli, probabilmente a causa della sua "debole complessione", la stessa che ne provocò la morte prematura l'8 aprile del 1618, a quindici mesi dal suo ultimo testamento del 6 gennaio 1617. La rete di committenti di Antonio, a un anno dalla morte, si può ricostruire proprio grazie alle sue ultime volontà che menzionano alcuni incarichi pendenti o somme che dovevano essergli saldate. Le commesse da portare a termine e i contatti nominati nel documento confermano l'alta considerazione in cui era tenuto Carracci poco prima di morire e danno credito al Baglione, per il quale "se fusse campato, avrebbe fatto nella pittura gran profitto".

Vincenzo Sorrentino

Le opere

Le due grandi tele, Le tre virtù teologali e l'Allegoria della Religione, costituiscono delle reinterpretazioni in chiave moraleggiante di due pennacchi della Loggia di Psiche, affrescata da Raffaello Sanzio (1483-1520) e collaboratori al piano terreno della Villa Farnesina, commissionata dal banchiere senese Agostino Chigi nel 1519, in occasione del suo matrimonio.

Quelle che il maestro urbinate e Giulio Romano avevano impostato come figure mitologiche sono state trasformate, attraverso attributi iconografici precisi, in chiare allegorie religiose nei due quadri appartenenti alla collezione del Museo e Real Bosco di Capodimonte, ma in deposito presso Palazzo Montecitorio dal 1926.

Venere è convertita in una chiara rappresentazione della Fede, grazie all'aggiunta di un calice e di una croce; la corona di spighe di grano di Cerere è invece tramutata in una di spine fiorita, che insieme a quella di stelle tenuta in mano dalla personificazione, simboleggia la Speranza; la figura in primo piano nell'opera raffaellesca era identificabile con Giunone, di cui si intravede ancora il caratteristico pavone, mentre nel dipinto in esame lascia cadere dalle mani alcune monete e fette di pane. Il pellicano che si ferisce il petto per alimentare i suoi pulcini e l'iscrizione tratta dalla prima lettera ai Corinzi (1 Cor. 13, 13) confermano in maniera ancor più netta che si tratti appunto della Carità.

Accanto alle Tre virtù teologali, quelle che invece erano Le tre grazie raffaellesche in dialogo con Cupido vengono affiancate a oggetti chiaramente provenienti dall'ambito ecclesiastico. Le chiavi, la colomba, la palma del martirio, la spada, le Sacre Scritture dalla ricca copertina decorata (agli angoli vi sono raffigurate delle placchette in bronzo con le raffigurazioni incise del tetramorfo e un Ecce Homo al centro) e il turibolo trasformarono le tre figure mitologiche in un'Allegoria della Religione. Per quanto il cartiglio con l'iscrizione «Militet ut triumphet» abbia fatto pensare a una rappresentazione della chiesa militante, gli attributi sopraelencati compaiono con frequenza in numerose raffigurazioni della Religione tra Cinque e Seicento, come quella del Salone dei Cento Giorni nel Palazzo della Cancelleria a Roma (1546) e quella nell'illustrazione dell'Iconologia di Cesare Ripa (1603).

Tali evidenze avvalorano quest'interpretazione, avanzata per la prima volta da Pierguidi (2010), che implicherebbe anche una forte partecipazione del mecenate nell'ideazione di questa sofisticata e inedita trasformazione. I due dipinti, infatti, non costituiscono delle semplici repliche, ma neppure delle versioni censurate dei pennacchi della residenza trasteverina, acquistata dal Gran Cardinale Alessandro nel 1580: le nudità raffaellesche sono riproposte quasi nella loro originale integralità, ma risultano reinterpretate alla luce di un nuovo e peculiare contesto storico e culturale.

A partire dall'inventario Farnese del 1644, testimonianza fondamentale della disposizione della collezione nel palazzo romano, lo studioso ha infatti ipotizzato che i due dipinti potessero essere stati commissionati dal cardinale Odoardo Farnese (1573 - 1626), per arricchire la sterminata raccolta familiare e, molto probabilmente, con l'obiettivo di dare un'impronta personale all'allestimento. Numerosi riferimenti documentari attestano le due tele nel palazzo romano sin dalla metà del XVII secolo, quando venivano descritte appese alle altissime pareti del Salone grande dell'«appartamento nobile», quindi del primo piano. Le tre virtù teologali e L'Allegoria della Religione erano disposte di fronte alla Disputa sull'Immacolata Concezione di Giovanni Antonio de Sacchi (1484-1539), detto il Pordenone, e all'Allegoria della Giustizia di Giorgio Vasari (1511-1574), opere di dimensioni altrettanto considerevoli. Tale collocazione avrebbe pertanto rispecchiato la volontà del nobile prelato di abbinare questi dipinti, con l'obiettivo di dare vita a una sorta di ciclo figurativo a tema religioso, che costituisse un manifesto della propria condotta di vita ecclesiastica. La collocazione di assoluta rilevanza in cui erano disposte le opere - il salone del primo piano era infatti il primo ambiente di rappresentanza che incontravano gli ospiti - sottolinea l'importanza che avevano per il loro committente. Odoardo, infatti, le aveva inserite all'interno di un allestimento ricco e inedito, dal quale era possibile dedurre anche la sua ampiezza di orizzonti a livello culturale: le allegorie di raffaellesca memoria, che rimandavano appunto alla prestigiosa proprietà di famiglia sull'altra riva del fiume, erano affiancate da statue antiche e da altre due opere, che ricordavano il ducato Parma e Piacenza, sotto il dominio farnesiano a partire dal 1545. Per comprendere il legame tra queste due residenze è bene ricordare che l'antica villa di Agostino Chigi avrebbe dovuto essere collegata al palazzo di famiglia dall'altro lato del fiume tramite un ponte che, però, non venne mai realizzato.

L'ambizioso prelato aveva disposto accanto altri dipinti di carattere religioso, tra cui spiccano anche le due copie dell'abside di San Giovanni Evangelista a Parma del Museo e Real Bosco di Capodimonte, recentemente avvicinate anche alla mano di Agostino Carracci (1557-1602) (figg. 3-4; Cerasuolo 2018). La proposta da poco avanzata mette così in dubbio l'attribuzione del redattore dell'inventario, che li considerava realizzati dal pennello di Annibale Carracci (1560-1609), così come le opere oggetto del presente approfondimento.

Nei documenti (Bertini 1987, p. 113) e nelle fonti antiche (Bellori 1696, p. 78) infatti, i due dipinti erano considerati copie autografe del maestro bolognese, ma alcune fiacchezze stilistiche hanno presto indotto gli studiosi ad allontanarli dalla sua mano, per ricondurli genericamente al suo entourage. Per primo Stefano Pierguidi ha tentato di risolvere il problema dell'attribuzione delle opere, avanzando dubitativamente il nome di Innocenzo Tacconi (1575-1623), che aveva affiancato il maestro nella realizzazione degli affreschi della cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo (1600); più recentemente Alessandro Zuccari ha proposto invece di avvicinarli alla mano del più giovane Antonio Carracci. Dopo la morte prematura del padre Agostino (si veda il saggio di Sorrentino), il fanciullo si unì alla compagine di artisti attivi nella bottega di Annibale e presso di lui consolidò i fondamenti del mestiere.

Lo stretto contatto con Annibale Carracci e la frequentazione quotidiana della corte Farnese - che comprendeva appunto anche Villa Farnesina - renderebbero Antonio un candidato particolarmente adeguato per l'autografia di questi due dipinti.

Effettivamente, si riscontrano alcuni punti di contatto tra le poche opere che appaiono più saldamente ancorate al corpus del giovane Carracci e i quadri oggi presenti alla Camera dei deputati, come la profonda comprensione del portato artistico di Raffaello, che Antonio studiò frequentemente secondo la biografia fornita da Giovanni Baglione. Le pieghe del panneggio della Maddalena della Madonna col Bambino, le sante Marta e Chiara e San Giovannino, oggi a Berlino (Fig. 5), somigliano in maniera piuttosto stretta a quelli della Carità, così come il bambino in primo piano ricorda non solo il celebre San Giovannino di Raffaello degli Uffizi, ma anche i putti scapigliati delle Tre virtù teologali.

 Inoltre, alcuni passaggi di vibrante naturalismo, come le fioriture della corona di spine o le fette di pane che cadono, riconducono in maniera piuttosto decisa il dipinto a uno strettissimo collaboratore di Annibale, come poteva essere appunto il nipote. Tuttavia, la discontinua qualità pittorica che si avverte nei due dipinti, l'estrema prossimità intercorsa tra i vari seguaci del maestro, tra cui è bene ricordare Francesco Albani (1578-1660), Domenichino (1581-1641) e Sisto Badalocchio (1585-1647), nonché la scarsità di opere documentate riconducibili con certezza al giovane pittore, indurrebbero a una maggiore cautela.  

Stando all'ipotesi avanzata da Pierguidi, i due dipinti dovrebbero essere stati commissionati dopo l'arrivo della Disputa sull'Immacolata Concezione di Pordenone, che fu donata al cardinale dal maggiordomo di casa Claudio Scotti nel 1616. In tal senso, le opere si collocherebbero pertanto nella parte finale della vita dell'ultimo dei Carracci, dimostrando la continua riflessione compiuta sulle immagini di Raffaello.

Gloria Antoni

Bibliografia: Giovan Pietro Bellori, Descrizione delle imagini dipinte da Rafaele d'Urbino nelle Camere del Palazzo Apostolico Vaticano, Roma, nella Stamparia di Gio:Giacomo Komarek, 1695, pp. 77-78; Giuseppe Bertini, La Galleria del Duca di Parma: storia di una collezione, Bologna, Nuova Alfa, 1987; Stefano Pierguidi, Pordenone, Vasari e le repliche dalla Loggia di Psiche in Palazzo Farnese: un ciclo di soggetto sacro per il cardinale Odoardo (1616-20), in «Mélanges de l'École française de Rome», 122-2, 2010, pp. 339-345; Angela Cerasuolo, Né Correggio né Carracci? Le copie farnesiana dall'abside di San Giovanni Evangelista, in Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere, catalogo della mostra (Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, 21 dicembre 2018-15 ottobre 2019) a cura di C. Romano, M. Tamajo Contarini, Napoli, editori Paparo, Roma-Napoli 2022; Alessandro Zuccari, Arte, collezionismo, Accademie e riforma tridentina: Federico Borromeo tra Roma e Milano, in La donazione della raccolta d'arte di Federico Borromeo all'Ambrosiana (1618-2018). Confronti e prospettive, a cura di Alberto Rocca, Alessandro Rovetta e Alessandra Squizzato, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Centro Ambrosiano, 2019, pp. 13-48.

Immagini di confronto:

1. Raffaello e Giulio Romano, Venere, Giunone e Cerere, Roma, Villa Farnesina, Loggia di Psiche

2. Raffaello e Giulio Romano, Amore e le tre Grazie, Roma, Villa Farnesina, Loggia di Psiche

3. Annibale (e Agostino?) Carracci, Incoronazione della Vergine (copia da Correggio), olio su tela

Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

4. Annibale (e Agostino?) Carracci, Cristo in gloria (copia da Correggio), olio su tela, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

5. Antonio Carracci, Madonna col Bambino, le sante Marta e Chiara e San Giovannino, Berlino, Gemäldegalerie

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dipinto

Allegoria della Religione
Antonio Carracci (Venezia, ? - Roma, 1618)
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