Il restauro del Diluvio universale di Francesco Bassano offre al visitatore di questa piccola ma preziosa mostra organizzata nella sala "Aldo Moro" di Montecitorio la possibilità di immergersi nelle atmosfere della pittura veneta della seconda metà del Cinquecento. Questa grande tela, in deposito alla Camera dagli Uffizi dal 1925, dialoga infatti con altri dipinti realizzati a Venezia nel medesimo periodo pure conservati a Montecitorio: una Madonna col Bambino e santa Caterina d'Alessandria della bottega del vecchio Tiziano Vecellio (con interventi dello stesso maestro nel Gesù), una Pastorale di Andrea Meldola detto Schiavone, che fu uno dei responsabili della diffusione in laguna del Manierismo sviluppatosi nell'Italia centrale a partire dal 1520 (anno della morte di Raffaello), e infine una grande, scenografica rappresentazione delle Nozze di Cana impostata da Paolo Veronese e condotta con la collaborazione di suo fratello Benedetto. Sono opere che manifestano in maniera palese la particolarissima inclinazione dei pittori veneti nei confronti del colore, della luce e dell'ombra. Il loro era un approccio di carattere naturalistico, ossia dipendente da un'osservazione non astratta ma aderente al dato ottico di come le superfici riflettono o non riflettono (nascondendola) l'incidenza della luce sul reale, o viceversa di come la luce combatte con l'oscurità che vi si annida. Mentre in generale nel primo Rinascimento si raffiguravano scene inondate da una luce nitida e radiosa, verso la fine del XVI secolo ci si appassionò al contrasto tra l'illuminazione rivelatrice del vero e il segreto di quel che non si vede. Si era sul confine tra due stagioni culturali: il sofisticato Rinascimento maturo (o tardo Manierismo che dir si voglia) e quella che si sarebbe aperta con l'inaspettata rivoluzione di Caravaggio: che peraltro - bisogna ricordarlo - conosceva benissimo questi esempi veneti, se non altro perché il suo maestro milanese, Simone Peterzano, verso il 1560-1565 era stato un discepolo di Tiziano a Venezia. Ma anche a Roma Caravaggio non poté non interrogarsi in merito alla diversità delle opere venete, e specificamente dei Bassano. Si pensi che la pala dell'altar maggiore di San Luigi dei Francesi - per la quale il Merisi decorò la cappella Contarelli con tre tele che sconvolsero il clima artistico dell'Urbe - spettava proprio a Francesco Bassano, che vi aveva rappresentato un'Assunzione della Vergine con un san Pietro dai piedi ostentati in primo piano sorprendentemente sporchissimi (che poco dopo lo stesso Caravaggio ripropose nella Madonna dei Pellegrini in Sant'Agostino in Campo Marzio).
Dopo il recente restauro, il Diluvio di Francesco si presenta in una veste ben diversa da quella precedente l'intervento di ripristino: tinte sgargianti e a tratti elettriche illuminano il primo piano di una scena che viceversa nel secondo sprofonda nel buio di una notte impenetrabile. È il buio che avvolge l'incognita di ogni tragedia, in questo caso quella dell'umanità che non aveva potuto seguire Noè nella sua fuga verso la salvezza. A prima vista, la scelta del soggetto potrebbe sembrare incongrua. Intorno al 1580 infatti, si viveva un periodo storico in cui, dopo decenni di scontri, pestilenze e carestie, si godeva di relative tranquillità e benessere, aVenezia più che altrove. Era una metropoli al culmine della sua potenza, ricca e opulenta non solo nella dimensione artistica, ma anche in quelle economica e culturale nel senso più ampio del termine. Eppure, la percezione della fragilità della vita e la consapevolezza che le cose potessero cambiare all'improvviso non potevano che segnare nel profondo gli animi delle persone.
Noi osserviamo quadri come questi godendo dell'abilità tecnica che seppe renderli vivi, allora come oggi. Ma come spesso accade, è proprio nelle espressioni artistiche che le inquietudini sotterranee, non molto dissimili dalle nostre, emergono. Ce lo dimostra pure l'umbratile parabola esistenziale che ebbe in sorte l'autore del quadro: Francesco Da Ponte il giovane, detto Bassano, che all'epoca della realizzazione del dipinto aveva quasi trent'anni ed era considerato uno dei grandi talenti pittorici d'Italia.
Il dipinto rappresenta una scena convulsa ai limiti di una città. Nel corso di un'inondazione, a sinistra si vedono persone e animali che trovano salvezza a riva, mentre più al centro altri stanno inabissandosi o sono già morti. Molti cercano scampo ai piani alti delle case, sui tetti e sugli alberi, come il ragazzo abbarbicato al tronco a destra. In primo piano molti oggetti di uso comune galleggiano sull'acqua: vasellame, tinozze, scaldini, botti, tamburi, un liuto ... Nel secondo piano una grande imbarcazione sembra prendere il largo, con alcuni uomini che disperatamente cercano di aggrapparsi ad essa. Più in lontananza, la vasta distesa d'acqua melmosa si fonde con un cielo cupo, plumbeo.
Questa composizione si lega a un ciclo con le storie di Noè concepito da Jacopo Bassano verso la metà dell'ottavo decennio e più volte replicato dalla sua bottega. La sequenza narrativa parte dall'episodio della costruzione dell'arca, prosegue con l'ingresso degli animali nella stessa, descrive - appunto in questa scena - il momento del diluvio in cui l'umanità cerca di salvarsi e si conclude con il nuovo patto tra Dio e Noè, visualizzato mediante il sacrificio offerto dal patriarca e la costruzione delle capanne da parte dei suoi congiunti. Sebbene sia probabile che i prototipi di Jacopo siano andati perduti, due buone redazioni della serie completa si conservano nel Museo Arcivescovile di Kroměří, nella Repubblica Ceca, e nel convento dell'Escorial, presso Madrid.
Al pari di molte altre composizioni di tema biblico approntate da Jacopo Bassano, anche questa conobbe una notevolissima fortuna collezionistica e commerciale, che dipendeva in particolare dalla sua apprezzata capacità di rappresentare in termini di estrema verosimiglianza figure, animali e cose. Si osservino gli oggetti in rame, di cui si percepiscono le battute sul metallo, o i velli degli animali, come quelli dei due cani a sinistra e al centro, nonché del gatto che cerca faticosamente di uscire dall'acqua. Oltre agli esemplari sopra menzionati, del Diluvio sussistono ulteriori redazioni - più o meno simili - a Londra (Royal Collection, Kensington Palace, inv. 406106), il più bello di tutti, Monaco di Baviera (Alte Pinakothek, inv. 6048), Arezzo (Museo d'Arte Medievale e Moderna, in deposito dagli Uffizi, inv. 580), Genova (Palazzo Reale, inv. 531), Nancy (Musée de Beaux-Arts, inv. 34), Padova (Fondazione Cariparo), Parma (Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, inv. F 338), Toledo (sacrestia della cattedrale) e Milano (Brera, inv. 5952), oltre che in anonime collezioni private. Curiosamente l'esemplare di Brera - di dimensioni inferiori (cm 102 x 139), da ultimo riferito a Leandro Bassano - è pure depositato a Roma, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, a Palazzo Chigi.
Sulla provenienza della tela oggi a Montecitorio non si dispone di dati certi. Secondo Alessandro Cecchi (1999), dotrebbe trattarsi del quadro inviato in dono nel 1578 dal cardinale Ferdinando de' Medici al fratello Francesco I insieme a un Ricco Epulone di simili misure (cm 169 x 259), pure agli Uffizi (Inv. 1890 n. 543). Così fosse, si disporrebbe di una data sicura per l'esecuzione dell'opera. Ma se l'invenzione spettò a Jacopo, a chi riferire l'esecuzione della presente tela? Se Cecchi (1999) concordava con il tradizionale riferimento a Francesco Bassano riportato negli inventari delle Gallerie fiorentine, più prudenti si sono dimostrate Lucia Peruzzi (2016) - che accenna alla "Cerchia di Jacopo Bassano" - e Maria Sframeli (2023) - per la quale si è innanzi a un prodotto della "Cerchia di Leandro o Francesco Bassano".
Dopo il restauro eseguito da Leonardo Severini, il dipinto ha acquisito una nuova leggibilità, che consente di riferirlo con buona sicurezza al pennello di Francesco. In alcuni punti particolarmente raffinati è inoltre possibile - secondo Alessandro Ballarin, il massimo specialista del maestro, riconoscere l'intervento del padre Jacopo: ad esempio nella donna che accudisce il bambino in primo piano a sinistra, in quella chinata al centro e nel giovane aggrappato al tronco dell'albero a destra.
Ci si può interrogare su quale fosse la destinazione di opere e di cicli di questo tipo. Non v'è dubbio che un certo numero venissero eseguite per specifici committenti, che le collocavano all'interno delle loro dimore: se di dimensioni importanti come questa alla Camera, necessariamente in un "portico", ossia nel salone principale di un palazzo. Un numero ancor più sostanzioso di esemplari sarà stato affidato ai mercanti che le proponevano in vendita nelle piazze di tutta Italia, e non solo: quello dei Bassano era infatti un marchio di fabbrica' che li rendeva appetibili in ogni contesto collezionistico. Sappiamo però anche che un'Arca di Noè di Jacopo stava appesa nella cappella principale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Venezia: e quindi, com'è ovvio, una certa percentuale di queste opere sarà approdata in contesti ecclesiastici. Ciò anche in considerazione del significato allegorico che presupponevano: infatti l'arca di Noè rappresentava simbolicamente la Chiesa, grazie alla quale i fedeli che seguono la volontà di Dio possono giungere alla salvezza, pur dopo un percorso di tribolazioni.
Il motivo della grande fortuna del tema del Diluvio universale - di cui si parla nel Libro della Genesi (capitoli 6-9) - si lega però in qualche misura pure al fatto che fin dal periodo medievale ci si interrogava su come realmente si fosse svolta questa impresa. Ovvero, come fosse stata costruita l'arca, da quanti operai, in quanto tempo, se assomigliasse più a una casa o a un vascello, quanto spaziosa fosse, quanti animali vi fossero entrati, come essi furono suddivisi all'interno dello scafo, in che modo Noè riuscì a farli convivere pacificamente, su quanto durò il diluvio, in quale zona del mondo avvenne ecc. ecc. A ognuno di questi quesiti, l'unica risposta che metteva d'accordo religiosi e scienziati era che tutto questo fu possibile esclusivamente grazie all'aiuto divino. Da quel che si vede nel dipinto, si può dire solo che nella mente dei Bassano l'arca non era poi così grande e che assomigliava a una stalla posta su una chiatta dalla poppa molto arquata arcuata. Tutto sommato, anche Michelangelo nella Cappella Sistina non l'aveva immaginata troppo diversa.
L'opera fu realizzata in un momento di particolare splendore nella produzione artistica veneziana. Non da molto era morto Tiziano, ma restavano in vita - onoratissimi e richiesti dai collezionisti di tutta Europa - Paolo Veronese (che sarebbe mancato nel 1588), Jacopo Tintoretto (scomparso nel 1594) e, appunto, Jacopo e Francesco Bassano che, come detto, chiusero entrambi gli occhi alla vita nel 1592. Anche in ogni altra dimensione culturale la Serenissima eccelleva: dall'architettura (con Palladio, Sansovino e Scamozzi), alla scultura (Vittoria), alle arti suntuarie (mobili, arredi, vetri, ceramiche, oreficerie ...), alla produzione editoriale e musicale. E riguardando il liuto che galleggia al centro della composizione tra un tamburo, una tinozza e una ciotola - forse in quanto emblema delle fragilità delle arti nei momenti drammatici della storia - non può che venire in mente che nel 1584 a Venezia veniva dato alle stampe un importantissimo trattato dedicato a questo strumento, il Fronimo. Autore ne era Vincenzo Galilei, il padre di Galileo. E sulle note di un brano compreso in tale volume il visitatore è accolto nella sala di Montecitorio.
Bibliografia relativa al dipinto: A. Cecchi, in Villa Medici. Il sogno di un cardinale. Collezioni e artisti di Ferdinando de' Medici. Catalogo della mostra (Roma, Accademia di Francia, 18 novembre 1999 - 5 marzo 2000), a cura di M. Hochmann, Roma 1999, p. 260; L. Peruzzi, Per un'analisi della produzione di matrice bassanesca. Censimento dei materiali fotografici, costruzione di un database informatico e schedatura delle opere relative all'Antico Testamento. Tesi di dottorato di ricerca, XXVII ciclo, 2016, tutor E.M. Dal Pozzolo, p. 259 n. 1.e; M. Sframeli, Le dimore del patrimonio. Opere delle Gallerie fiorentine in deposito esterno a sedi di rappresentanza e luoghi di culto, Firenze 2023, II, p. 181 n. III. 56.
Prof. Enrico Dal Pozzolo