Tra il 1579 e il 1580 il telero - destinato al refettorio del convento benedettino femminile di clausura di San Teonisto a Treviso - viene commissionato alla bottega dei Caliari dalla nobile abbadessa trevigiana Cecilia dei Conti Onigo, famiglia che in quegli anni vive il momento del suo massimo prestigio. La committente si fa effigiare ritratta di spalla come coprotagonista accanto ai personaggi evangelici.
La grande tela appartiene a un fenomeno artistico e culturale che sancisce l'affermazione del Veronese, quello delle Cene, quasi tutte musealizzate in Italia e all'estero, che si afferma degli anni Settanta del XVI secolo, tipico dell'affermazione della Serenissima che si autorappresenta come protetta dal Redentore.
Sono anni di attività frenetica per la bottega dei Caliari. Il genio pittorico di Paolo prende le mosse dalla lezione di Tiziano e si distingue per una spettacolarità senza dramma delle scene sacre, per la luminosità alta, il cromatismo inimitabile, che arriva a far vibrare il colore anche nelle zone d'ombra. Paolo si forma a Verona, città aperta alle influenze mantovane di Giulio Romano, e a quelle parmensi trasmesse dalle stampe dello Schiavone traduttore delle invenzioni del Parmigianino. Il suo linguaggio è classico e particolarmente ricettivo nei confronti della tradizione disegnativa e plastica dell'Italia Centrale, specialmente raffaellesca. Le sue ambientazioni fastose e sceniche prendono a modello le scene prospettiche del Palladio, del Sanmicheli e del Sansovino.
In quest'opera l'architettura si dilata in senso scenografico sfondando in profondità con una apertura di paesaggio sul cielo serotino attraversato da nubi che esaltano i valori atmosferici. La testa è incorniciata da una architettura marmorea dotata di timpano che richiama significati sepolcrali. La parete è impaginata tramite il basamento marmoreo, le colonne, la serliana aperta sul cielo. Vivaci i brani realistici del cane che baruffa col gatto e del pappagallo immessi nella scena in primo piano.
All'interno di questa macchina teatrale si inscena il primo miracolo di Cristo di argomento eucaristico: la rappresentazione del pane e del vino e la loro transustanziazione, con una specifica valenza antiluterana e tridentina. Non solo, quindi, una rievocazione mondana e laica delle feste statali dell'incoronazione del Doge e delle visite dei principi stranieri.
A partire dagli sposi sulla sinistra, tramite una variegata quantità di figure, l'azione si dipana sotto gli occhi del riguardante e trova nel gruppo di Cristo con la Madonna, al centro della tavola imbandita con le delizie del credenziere, un deciso cambiamento di tono in senso drammatico. Non più la festa, il banchetto, i moti inanellati delle figure, ma una pausa meditativa che blocca severamente le figure in una posa statica con lo sguardo fisso in uno spazio oltre la scena. Si tratta di una allusione all'Ultima Cena, dogma centrale della chiesa cattolica. Di questo contenuto troviamo l'eco nell'atteggiamento meditativo di Cecilia Onigo, unica commensale seduta al di qua dei banchettanti, che fa da tramite tra il mistero rappresentato e le monache del refettorio di San Teonisto.
La tela viene dipinta a Venezia e i libri contabili del monastero attestano due pagamenti a Paolo (1579-1580), in quegli anni attivo nel prestigioso cantiere di Palazzo Ducale. La sua bottega è organizzata come un'impresa artistica di grandi dimensioni che ha una portata europea; il suo primo collaboratore, attivo in autonomia nei molti cantieri delle ville affrescate nell'entroterra, è il fratello Benedetto. Con gli anni Settanta, incrementate le commissioni, Paolo e la bottega riutilizzano porzioni o singoli motivi di disegni precedenti, come spunto per ideare nuove composizioni. Alla morte di Paolo Caliari (1588) l'attività della bottega continua con Benedetto che opera assieme ai figli di Paolo, Carletto e Gabriele, i quali diffondono il marchio di Haeredes Pauli. Tali botteghe familiari, tipiche di Venezia, erano nate nel Quattrocento coi Vivarini e i Bellini e arriveranno al Settecento coi Tiepolo e i Guardi.
In letteratura il tema della paternità del telero delle Nozze di Cana è emerso precocemente. La guidistica braidense ottocentesca si limita a attribuirlo alla bottega del Veronese. Per la prima volta, nel 1940, anno della scoperta dell'atto di commissione, la critica individua la mano di Benedetto, che opera a fianco del fratello. Benedetto non sigla e non firma, è fedele ai modelli di Paolo suo maestro dal quale si distingue tuttavia per un'esecuzione più fredda e meno libera, un plasticismo greve, una certa rigidezza nei movimenti, il colore poco vibrante dai toni più bassi, dominati dai rossi. La sua figura di pittore viene dapprima relegata a quella di un esecutore artigianale di scenografie, più abile nella grafica che nel dipingere, ma costituisce in realtà un tipico modus operandi della bottega. Infatti egli è il più fidato coadiutore di Paolo che di fatto fa svolgere al fratello il ruolo di sovraintendente ai molti cantieri aperti dall'officina Caliari fuori Venezia.
La fama del telero arriva a Venezia ed è attestata da Carlo Ridolfi (1648). A Treviso tale successo determina la decisione di esporre le Nozze veronesiane nello spazio pubblico della chiesa, fatto a cui consegue la commissione di una copia a Giovan Antonio Fumiani (1692-93) destinata al refettorio. Per consacrare a futura memoria questo evento, il Fumiani trasforma la lacuna rimasta nell'originale in corrispondenza della porta in basso a destra, in un epitaffio marmoreo, recuperato dal restauro del 2021.
La tela arriva a Brera dal monastero soppresso per mano degli ufficiali napoleonici nel marzo del 1811: dalle guide del museo è attestato esposto in sala negli anni 20, 30, 40 - fino al 47 - dell'800. Per la prima volta nel 1903 il dipinto è documentato all'interno della Scuola Veneta col primo ordinamento per scuole regionali. Nel 1907 il Ricci lo etichetta come scuola del Veronese e ne addita elementi significativi relativi alla problematica storia conservativa: "la spedizione mal fatta dopo le soppressioni, il bagnamento del trasporto. Il viaggio per via fluviale di frotte di dipinti fino a Padova e poi a Cremona fino a arrivare a Milano dove vengono stipati in Santa Maria della Passione".
Federico Hermanin, all'epoca Consulente artistico della Camera dei deputati, oltre che Direttore delle Regie Gallerie d'arte antica di Roma, provvede all'arredamento degli ambienti di Palazzo Montecitorio, appena ampliato da Ernesto Basile (1919), e il dipinto arriva alla Camera dei deputati nel 1926, insieme a circa 400 opere provenienti dai depositi dei musei di tutta la nazione.
Tra il 2020 e il 2021 è stato progettato e realizzato l'intervento di restauro dell'opera, il cui stato conservativo era da tempo monitorato con particolare attenzione. La tela infatti appariva molto deformata, in seguito al deperimento della foderatura del supporto. Il telaio aveva perso la sua funzionalità, a causa dell'usura del tempo e delle precedenti manomissioni non sosteneva più adeguatamente la tela. La superficie pittorica era interessata da numerose sovrammissioni, ridipinture, residui di adesivi, ritocchi e vernici alterate che ne impedivano una corretta lettura.
Dopo delicate operazioni di smontaggio e movimentazione è stata rimossa la vecchia foderatura della tela, il cui incollaggio era ormai deteriorato, e l'opera è stata applicata su una nuova tela ausiliaria con colla pasta. Ciò ha permesso di recuperare il corretto sostegno del supporto, l'adesione fra gli strati e, dopo il rientro a Montecitorio e il rimontaggio sul nuovo telaio sagomato perfettamente sul profilo del dipinto, di garantire un corretto ed equilibrato tensionamento della grande tela.
La superficie dipinta è stata liberata dei diversi strati di vernici e ridipinture. Oltre a recuperare l'intensità cromatica e la profondità spaziale precedentemente offuscata, la pulitura ha permesso di scoprire e restituire alla vista, sotto la riquadratura nera in basso a destra che la occultava, l'iscrizione che accompagnava l'esposizione del dipinto nella Chiesa di S. Teonisto a Treviso. Successivamente le lacune e le abrasioni degli strati pittorici sono state puntualmente e accuratamente reintegrate, e su tutta la superficie è stata applicata una vernice protettiva finale. Anche la cornice, che appariva ampiamente e ripetutamente rimaneggiata e adattata, è stata restaurata.
Al termine dell'intervento di restauro il telero è tornato alla Camera dei Deputati, rimontato in cornice e ricollocato nella Sala Aldo Moro.
A cura della Pinacoteca di Brera