primo quarto del XVII secolo
olio su tela
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, in deposito alla Camera dei Deputati dal 23/09/1925
inv. Salazar 84503
L'uomo, rappresentato su di un fondo neutro, indossa un abito in velluto nero di seta damascato, con una fascia dello stesso tessuto, che attraversa trasversalmente il vestito; al collo è presente una gorgiera a larghe falde, di moda nei Paesi Bassi nel primo quarto del XVII secolo. In particolar modo, il tessuto indossato dal personaggio era un'esclusiva genovese, prodotta a Zoagli e Chiavari, sin dal Medioevo. Si caratterizza per una lucentezza satinata, l'incomparabile morbidezza e l'ingualcibilità, e, proprio per queste caratteristiche, dal XVII secolo vestirà gran parte dell'aristocrazia e della nascente società borghese europea, diventando il medium ideale, in virtù dei suoi effetti cangianti, per la ritrattistica barocca di Rubens e Van Dyck. Proprio da quest'ultimo e dalla maniera brillante di Frans Hals nell'uso del colore, trae spunto il dipinto oggi a Montecitorio; l'effigiato, infatti, come nei ritratti di questi maestri, ma con minor forza compositiva, segue un'impostazione generale di tre quarti, che rende la figura più familiare, comunicativa, mossa, ma allo stesso tempo nobilitata nel suo status sociale, che sia esso un medico, un'ufficiale o un banchiere. La silhouette si contraddistingue per una folta zazzera bionda che fluisce, arruffata, sino al collo; altro elemento che contraddistingue l'uomo è l'uso dei baffi e del moschetto, di gran moda nei paesi del nord Europa, vezzo, questo, prediletto anche dallo stesso Van Dyck, che in gran parte dei suoi autoritratti ama esibirlo.
Analizzando gli inventari a nostra disposizione, si può supporre che il dipinto possa essere identificato nell'"...altro ritratto in mezza figura, fiammingo, con cornice", presente nella lista, stilata nel 1802, delle opere trasportate a Palermo dal re Ferdinando di Borbone, indicato come rinvenuto a Roma da Domenico Venuti, soprintendente alle Antichità del Regno di Napoli, direttore e intendente della manifattura di porcellana, in San Luigi dei Francesi, mentre era intento, dall'autunno del 1799, nel tentativo di recuperare il patrimonio d'arte trafugato dai francesi, durante i sei mesi della Repubblica Partenopea.
Il fatto che il sovrano decidesse di portare con sé in Sicilia quest'opera, nella sua fuga da Napoli, insieme ad uno scelto gruppo di dipinti della sua collezione, tra cui i ritratti di Tiziano, fa capire l'importanza che era tributata al ritratto.
Gennaro Paterno, nell'elenco dei dipinti (1806-1816) che nel frattempo erano ritornati a Napoli, nell'allora Museo Borbonico (oggi Museo Archeologico Nazionale), descrive l'effigiato come "...quadro in tela alto palmi 2: 5/6, largo palmi 2: 5/12. Ritratto d'uomo con baffi, e barba nell'estremità del mento, con camicio bianco al collo, vestito di drappo negro riccamente guarnito, di Vantick". Nei successivi inventari, a partire da quello stilato da Michele Arditi (1821), l'opera è sempre ricordata come di mano di Antoon van Dyck, almeno fino all'inventario Salazar (1870): "Antonio Van Dik. Ritratto d'un gentiluomo con biondi capelli e ricca goliera. Tela".
L'opera fu ritenuta per gran parte dell'Ottocento di straordinario pregio, sempre citata nelle varie guide tra le opere esposte nelle sale del Real Museo. A partire, invece, dalla guida di Arnold Ruesch del 1910, Illustrated Guide in the National Museum in Naples, il dipinto è retrocesso a ignoto tedesco del XVII secolo, mentre Aldo De Rinaldis, nella Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli (1911), lo attribuisce a scuola olandese, scelta che, ancora oggi, sembra la più consona ad indicarne la definizione dell'ambito artistico.
A cura di: Museo e Real Bosco di Capodimonte
Bibliografia
Museo di Capodimonte. Dipinti del XVII e XVIII secolo scuole italiane ed europee. Le collezioni borboniche e postunitarie, Milano, Electa, 206, p. 108, scheda n. 208 (a cura di Maria Tamajo Contarini)