1720 - 25 ca.
olio su tela
110 x 98 cm
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, in temporaneo deposito alla Camera dei Deputati dal 30/06/1926
inv. d'Avalos 136/3
Il dipinto è, in quest'occasione, individuato quale ritratto di Maria Mancini, figlia di Girolama Mazzarino e del barone Lorenzo Mancini, nipote del cardinale Giulio Mazzarino, primo ministro di Francia durante la reggenza di Luigi XIV.
La donna si pone davanti allo spettatore in una doppia valenza: da un lato Venere, dagli incarnati perlacei, a contrasto col fondo scuro, che, in modo compiacente, mostra un seno attraverso una scollatura estremamente accentuata; dall'altro santa Caterina, mentre ostenta il simbolo del martirio, la palma, e lo strumento del suo supplizio, la ruota dentata. Una vera e propria antinomia tra colori e forme; il manto rosso, franto dal vento, a simboleggiare la passione carnale di Venere a contrasto con l'abito, a fondo oro, un estofado, che sottolinea la figura, quasi fosse un reliquiario sacro. La capigliatura, studiatamente raccolta, scopre il lungo collo della giovane, che indirizza i nostri sguardi verso il seno e poi, risalendo, incontra il viso che, suadente, sembra invitare gli astanti ad entrare nell'opera, accanto a lei.
Con il termine di Mazarinettes o di Belle Chigi (in ricordo della serie di ritratti eseguiti da Jacob Ferdinand Voet nel Palazzo omonimo di Ariccia) è rievocata la fama delle nipoti del cardinale Mazzarino e, soprattutto, di un modo di fare piuttosto audace e calcolatore. Maria, insieme alle altre sei sorelle e alle due cugine, è tra le protagoniste della vita mondana della Francia del XVII secolo. Le donne sono ricordate per la loro bellezza mozzafiato, che non lascia indifferente lo stesso Re Sole, per i modi dissoluti e frivoli e per gli importanti consorti cui furono legate, frutto della mediazione strategica del cardinale, che le fa trasferire in Francia in giovane età (Laura, ad esempio, andò in sposa a Luigi di Borbone, nipote di re Enrico IV). A tal proposito, è opportuno ricordare come l'astuzia del primo ministro segnerà il new deal della politica francese, indirizzandola verso l'arte della diplomazia e del compromesso, ma in realtà ponendo le basi di quello che sarà l'assolutismo monarchico di re Luigi XIV. Il solco lasciato nella cultura d'Oltralpe è, ancora oggi, vivido, poiché in Francia quando qualcuno tenta di fare il furbo viene soprannominato "Mazzarino".
Sfumata la possibilità di far congiungere Maria col Re Sole, che nel frattempo, su consiglio del cardinale, sposa la cugina Maria Teresa d'Asburgo, rafforzando i rapporti tra Francia e Spagna, Mazzarino, con abili manovre, unisce in matrimonio, per procura, l'11 aprile del 1661, Maria Mancini e Lorenzo Onofrio Colonna (1637-1689), futuro Viceré d'Aragona e del Regno di Napoli.
Trasferitasi a Roma, Maria vi rimane fino al 1672, quando, stanca dei continui tradimenti e maltrattamenti del marito, decide di abbandonare il tetto coniugale, per scappare lontana dall'Italia, in alcuni conventi tra Francia, Spagna e Fiandre.
Documenti d'archivio ricordano i continui pagamenti eseguiti da Maria in favore di Jacob Voet (1639-1689), artista fiammingo e famoso ritrattista barocco, per rappresentare se stessa e le sorelle; accanto a questi dipinti, numerosi altri artisti, da Carlo Maratta a Gaspar Netscher, celebrano, in palazzo Colonna e nelle residenze europee, il fascino di queste donne. L'espressione delle effigiate è di solito intima, ironica, libera da qualsiasi gravità o aulicità; gli abiti che indossano sono licenziosi, conformi alla moda filo-francese, ancora sconosciuta alla Roma bigotta e tradizionalista dell'epoca. L'antologia iconografica è vastissima; infatti, accanto al tema che segue la moda parigina dell'epoca, le "Mazzarine" amano anche farsi ritrarre quali divinità allegoriche, rivelando il loro carattere mondano. A Parigi, al Petit Palais, è conservato un dipinto delle tre sorelle Ortensia, Olimpia e Maria nelle vesti di Venere, Giunone e Diana; in un'altra immagine Maria diviene Armida della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso (Carlo Maratta, Palazzo Colonna) o Cleopatra nelle versioni di Voet (Milano, Castello Sforzesco) e di Mignard (Berlino). Non ci si stupisce, quindi, se nella tela d'Avalos Maria è raffigurata come Santa Caterina; di questo stesso soggetto esiste, al Museo di Vendome, un'altra versione, attribuita a Voet, con la medesima impostazione, con Maria effigiata quale santa Caterina, con l'unica variante della presenza sul capo e sul collo di una corona di fili di perle.
Il motivo della scelta iconografica potrebbe dedursi proprio dalla vita della Mancini, costretta a rifugiarsi da esiliata in vari conventi europei, come descritto nelle sue autobiografie Mémoires del 1675 e Vérité dans son jour del 1677, nelle quali si definisce come una martire, afflitta dalle continue ingiurie del marito, nel tentativo di nascondere i motivi della sua fuga dal tetto coniugale.
Il dipinto fa parte di una serie di sei tele, d'analogo soggetto e di formato ovale, donata, nel 1862, insieme a tutta la collezione di quadri (oltre trecento) e degli altri beni mobili, da Alfonso V d'Avalos, marchese di Vasto e di Pescara, alla città di Napoli. L'enorme patrimonio, tra cui spiccano numerose tele di Luca Giordano e Ribera, fu trasferito, nel 1882, dal palazzo dei nobili napoletani di via dei Mille verso l'allora Museo Nazionale di Napoli (oggi Museo Archeologico Nazionale), e poi al Museo di Capodimonte, nel 1957.
Questo ritratto, come gli altri cinque, è descritto nell'inventario d'Avalos come "ritratto a mezza figura di grandezza al naturale di una delle nipoti del cardinale Mazzarino, copia del Rigaud...".
Tale attribuzione è contraddetta negli inventari antecedenti, dove la serie passa dall'anonimato di "Donne d'autore ignoto" (1739), a "mano di Monsier Pussino" (1776), fino a "stile di David" (1806). Le tele restano nell'oblio fino a quando, nel 2005, Francesco Petrucci, nella sua monografia su Jacob Ferdinand Voet (1639-1689), cita i ritratti quali "modeste derivazioni da originali" dell'artista fiammingo.
Come ipotizzato da Mariateresa Pace, questa serie potrebbe essere giunta nella collezione tramite Cesare Michelangelo d'Avalos, favorito dell'Imperatore Leopoldo I, signore di Vasto e Pescara e grande collezionista, legato profondamente ai Colonna, cui Maria era appartenuta per vincolo di matrimonio. Nel 1723, per conto dell'Imperatore, il marchese consegna a Fabrizio Colonna il Toson d'oro e ne diviene frequentatore della casa romana; avrebbe potuto, quindi, osservare la serie delle Belle del Voet, presenti nel palazzo di via della Pilotta, ed in particolar modo quella commissionata nel 1714 ed eseguita in parte dal ritrattista Antonio David. Lo stile accurato dell'artista veneziano sembrerebbe condividere con le tele d'Avalos molti punti in comune: analoga è la cura minuziosa per la posa delle mani, affusolate e magre, e la grande attenzione alla ricostruzione analitica dei merletti e dei tessuti, finemente lavorati. Si tratterebbe, quindi, di una commissione dei sei ritratti da parte di Cesare d'Avalos al David, il quale si sarebbe ispirato, nello spirito, alle mode e agli autori che nel XVII secolo avevano reso celebri le Mazzarine, ma lontano dall'esecuzione tecnica sia di Rigaud che di Voet, contraddistinta da una pennellata fluida, rapida e sfrangiata, che dà risalto alla visione d'insieme del dipinto, più che ai singoli particolari, grazie alle luci che creano effetti cangianti nei ricami di velluto o damasco, a contrasto, invece, con i volti levigati e finiti.
A cura di: Museo e Real Bosco di Capodimonte
Bibliografia
Trascrizione dell'inventario d'Avalos, in P. Leone de Castris, I tesori dei d'Avalos: committenza e collezionismo di una grande famiglia napoletana, Napoli 1994, pp. 215, 218
M. Pace, Le "Mazzarinette" alla camera dei deputati, in Studi Romani, anno LXII, nn. 1-4, Gennaio - Dicembre 2014, pp. 297-305
A. Amendola, Quando ad essere ritratta è Venere. Nuovi documenti d'archivio su Maria Mancini e Jacob Ferdinand Voet, e appunti su Filippo Parodi, in Storia dell'Arte, vol. 115 (2006), pp. 59-76
S. Cappelli, David padre e figlio: qualche aggiornamento sui pittori Lodovico e Antonio David di Lugano, in "Arte & storia", 8.2007/08, 35 (2007), pp. 224-233